Quantità o qualità?


I rimandi degli insegnanti dopo questi primi giorni di scuola a distanza, ritornano spesso sul numero di ore di scuola.

Da quello che sento, nella scuola del primo ciclo le strategie messe in atto hanno spesso portato a una riduzione delle ore di scuola. O meglio, dovremmo dire che le ore di “lezione in videoconferenza” non corrispondono alla quantità di ore normalmente contemplate dall’orario scolastico in presenza.

Questo però sembra generare un po’ di ansia in qualcuno – sinceramente preoccupato che i ragazzi non facciano abbastanza – e quindi può essere utile fermarci a fare qualche riflessione in proposito.

Superare l’equivalenza fare lezione = fare scuola

In questi giorni ci stiamo accorgendo che ci sono molte attività interessanti fatte dai ragazzi a casa coi loro genitori che hanno una ricaduta sugli apprendimenti e sulle competenze.

Già questa osservazione dovrebbe portarci a riconoscere che l’equivalenza fare scuola = fare lezione non ha molto senso.

Il momento dell’interazione sincrona coi ragazzi (che normalmente si risolve nella lezione in classe) è solo una parte delle attività scolastiche. Il rischio nel ridurre la scuola ai momenti di lezione è quello di limitare i margini di autonomia dei ragazzi. Per crescere nell’autonomia (quindi diventare capace di auto-regolarsi e di auto-valutare le proprie azioni) un ragazzo deve sperimentare l’autonomia (in maniera via via crescente). Un ragazzo che ha vissuto il suo percorso formativo sempre e solo in maniera eterodiretta difficilmente diventerà autonomo. La scuola di questi giorni ci costringe a fare i conti con la necessità di aumentare gli spazi di autonomia dei ragazzi.

Fare lezione o interagire coi ragazzi

Nella prassi consolidata, il docente dedica buona parte del suo tempo in classe a fare lezione, cioè a spiegare quello che i ragazzi devono imparare. Oggi – avendo molto meno tempo a disposizione – molti insegnanti si stanno accorgendo che è importante, per sfruttarlo al massimo, usare i momenti di “connessione” con la classe per interagire coi ragazzi (per esempio per capire come stanno lavorando sulle consegne e se ci sono dubbi da chiarire).

La pratica didattica, magari ad un livello ancora inconsapevole, si sta spostando verso la flipped lesson: il docente quando li “vede” lancia una attività (magari dando anche delle consegne scritte e dei materiali di lavoro), lascia loro il tempo (da soli o connettendosi tra loro) di lavorare e poi, quando ci sarà un nuovo momento di connessione, faranno insieme il punto della situazione.

Meno ore non significa meno apprendimento

È la paura più grande in questi giorni: facendo meno ore “connessi” con i ragazzi si lavorerà di meno e quindi impareranno di meno.

C’è, di fondo, forse la paura di “restare indietro” rispetto a quello che ci si era proposti a inizio anno (purtroppo molto spesso ancora pensando al “programma” e non alle competenze da far raggiungere). Ma in questo momento la preoccupazione deve essere per la qualità dell’attività didattica e non per la quantità. Perfino il Ministero (con la nota 338 del 17 marzo 2020 su cui abbiamo già riflettuto) dice chiaramente che ogni scuola – vista la particolare situazione – deve “rimodulare gli obiettivi formativi sulla base delle nuove attuali esigenze” (cioè riprogettare il resto dell’anno scolastico).

Per chi dovesse avere ancora paura che fare meno sia un problema, può essere utile andare a vedere cosa ci insegna l’esperienza della scuola finlandese che, pur avendo molte meno ore di scuola della nostra e compiti a casa praticamente inesistenti, riesce a preparare i suoi alunni così bene da vederli ai vertici mondiali nelle rilevazioni del programma PISA.

Per approfondire il tema del successo formativo nella scuola finlandese può essere utile vedere una parte del documentario Where to Invade Next di Michael Moore.

Per gli addetti ai lavori può essere utile anche il libro Teach like Finland di Timothy D. Walker

Cosa impareremo in questi mesi?

Forse questa esperienza ci permetterà, quando fra qualche mese la potremo rileggere con calma, di valutare quali pratiche didattiche ha senso mantenere – perché aiutano i ragazzi a raggiungere il successo formativo – e quali si possono abbandonare perché – pur essendo tramandate dalla tradizione – non mostrano una reale utilità.


immagine di copertina di Eli Digital Creative da Pixabay